Le curve della visibilità

Sono giorni di grande stracciamento di vesti. Mi riferisco a Moncler, a Cucchi, ai lavoratori di Terni. Più è forte ed iconico il simbolo (i piumini da fighetti! Il viso di Cucchi tumefatto! Gli operai delle acciaierie!) maggiore è la visibilità e più alto è il grido che si alza. Dal web, sui social. Giù le mani dalle oche ungheresi. Giù le mani dagli spacciatori in stato d’arresto. Giù le mani dagli operai delle acciaierie Putilov (scusate, ma dovevo citarle: e secondo me qualcuno s’è bagnato al pensiero che ci fossero degli operai-delle-acciaierie-scesi-in-sciopero-come-ai-vecchi-tempi, il che forse dice pure qualcosa sulle reali prospettive di quei lavoratori).

Tutti temi assolutamente degni eh. Me so’ indignato pure io. Quella mezz’oretta buona.

Il problema è sempre quello: c’è un hype in avvio delle polemiche su specifici problemi – quale che ne sia la fonte iniziale, tv, giornali o web – e tutto si convoglia nel gran tubo digerente dei social network (essenzialmente su facebook e twitter) che continua a martellare per alcuni giorni (se non solo per alcune ore) sul quel problema, quell’evento, quell’azienda. Un martellamento che rimane limitato a quella specifica questione, in un appiattimento monodimensionale che impedisce qualsiasi ulteriore sviluppo delle problematiche in senso generale e/o socio-politico. Ci si annoia a leggere sempre la stessa roba, la notizia invecchia in modo accelerato, si passa il picco, si svolta la curva. Allora si passa ad altro, c’è una nuova puntata di Report, un nuovo scoop del Fatto, una nuova iniziativa grillina, un nuovo annuncio di Renzi e si riparte da capo.

Questo tipo di dinamica è senz’altro il frutto amaro della struttura stessa dei social mainstream.

Da un lato, sui maggiori social – data la loro natura “generalista” – siamo sollecitati (o forse distratti?) da una miriade di argomenti i più vari, finendo per dare attenzione a tantissima roba (molta meno di quella che ci interessa veramente o per la quale abbiamo la competenza minima necessaria a produrre un’analisi sensata). Sicché la messe è tanta, troppa: e tuttavia siamo spinti a partecipare comunque al raccolto, perché tutti se ne interessano, ed è ormai invalso l’uso di non negare un like o un commento a qualsiasi cosa, senza chiedersi “ma io ne so? Ma a me interessa?”. Col risultato che l’immagine prodotta dalla risposta sui social è che su un certo tema siamo tutti molto interessati e abbiamo qualcosa da dire: al contrario, poco o nulla ce ne frega degli orsi e nulla sappiamo di come vivono o dovrebbero vivere o qual è il prezzo (in termini di cessione di nostro benessere) per garantire il loro benessere. Epperò ¡que viva Danica!

D’altro canto, è vero anche che sui social ci stiamo tutti assiduamente, ma per poco tempo ogni volta ed in genere mentre facciamo altro o perché non abbiamo altro da fare, sicché è pressoché impossibile, o comunque molto difficile – e lo dico anche per me – riuscire ad impegnarsi in una discussione che abbia un minimo di spessore e/o approfondimento. Il che facilita la polemica mordi e fuggi ma non l’ampliamento delle prospettive della discussione.

Ma non è solo colpa del mezzo. Il mezzo solletica le nostre inclinazioni, aumenta la pendenza di una discesa che siamo già noi a preparare. Perché a tutti interessa incazzarsi con un click (com’era un tempo davanti a un bianchetto al bar, certi impulsi li abbiamo sempre avuti, non ce li ha certo inculcati Zuckerberg) per la triste vicenda di Cucchi, ma a nessuno importa veramente di quel buco nero della nostra coscienza che è il sistema carcerario italiano. A tutti, se costa due minuti su facebook, piace insultare la Moncler ma nessuno ha intenzione di pagare a proprie spese i costi di un capitalismo meno predatorio. A tutti, ovviamente, costa poco un tweet sui lavoratori bastonati, però nessuno vuole farsi carico del problema dell’industria pesante in Italia, ammesso che ci sia spazio per l’industria pesante in Italia.

E sì, il problema è sempre là. Ci indignamo per il “particolare” sul web, magari impuntandoci su questioni del tutto accessorie, e non lasciamo che da questo nasca una discussione nel merito del problema di cui il caso specifico è solo sintomo, sfaccettatura o conseguenza. Corriamo come idioti balzando di caso particolare in caso particolare. Trangugiando palate di fiele e cambiando ogni settimana l’obiettivo, senza aver capito molto del precedente, in attesa di capire ancor meno del prossimo. E nel frattempo ciarlando molto e non combinando un cazzo.

E questo perché procedere oltre il caso singolo significa studiare e approfondire. Studio ed approfondimento non virtuale. E dopo aver studiato ed approfondito, passare ad una azione reale, che implica tempo, energie, relazioni e a volte soldi. Tempo, energie, relazioni e soldi non virtuali.

Tutte cose che hanno il brutto vizio di costare un prezzo reale che, per l’appunto, non abbiamo alcuna intenzione di pagare. Nemmeno io, che infatti sul tema ho scritto solo un post di blog.

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